Questo testo intende essere una risposta a coloro che, anche tra i comunisti libertari, sono impegnati nella lotta contro l’“islamofobia” e, in virtù di questo, vorrebbero interdire ogni genere di critica contro l’Islam e promuovere una teoria della “razza sociale”, in un clima quanto meno generatore di tensioni, di accuse di razzismo ed anche di attacchi personali.
Se nasce probabilmente all’inizio del secolo scorso, è stato di recente che il termine “islamofobia” si è imposto in maniera eclatante come termine per indicare il razzismo verso gli “Arabi”. Si passa così dal razzismo contro le popolazioni del Maghreb alla paura o l’orrore suscitato dalla religione dei mussulmani. Gli immigrati ed i loro discendenti non saranno più discriminati per ragioni “etniche” ma per la loro supposta appartenenza ad una cultura originale ridotta ad un solo dei suoi aspetti: la religione mussulmana – nonostante non sia praticata da molti, anche quando si mantengono di essa alcune tradizioni divenuti di uso comune.
Siamo di fronte ad un gioco di prestigio che assimila la “razza” alla religione in quanto matrice culturale, ad una “mistificazione culturale (…), l’assegnazione di un intero popolo, in funzione della loro provenienza o del loro aspetto esteriore, alla categoria di “mussulmani”, mettendo a tacere ogni sorta di critica all’Islam, in quanto questo non rientrerebbe più nella categoria della critica delle religioni, ma direttamente in quella del razzismo”.(1) Se Claude Guillon vede del “disprezzo” in questo “antirazzismo degli idioti”,(2) noi vi scorgiamo soprattutto il fantasma che infesta la sinistra: il terzomondismo, ideologia che conduce ad adottare acriticamente la parte dell’“oppresso” contro quella dell’“oppressore”. È così che, durante la guerra del Vietnam, criticare gli USA implicava sostenere il Viet Minh e la politica di Ho Chi Minh, del quale i comitati Vietnam scandivano il nome ed innalzavano il ritratto durante le manifestazioni, come oggi sostenere i Curdi può implicare il sostegno al PKK ed innalzare il ritratto di Oçalan. Questo è successo durante la guerra d’Algeria dove coloro che, vedendo nel “colonizzato” lo sfruttato per eccellenza, hanno sostenuto incondizionatamente l’FLN, si è riprodotto durante la rivoluzione iraniana del 1979 e fra i propalestinesi. Il terzomondismo ha così abbandonato il proletariato come soggetto rivoluzionario per sostituirlo con il colonizzato, poi con l’immigrato, poi con il discendente d’immigrato… per giungere ai religiosi. L’originale terzomondismo aveva promosso il relativismo culturale , i suoi successori hanno adottato il culturalismo che pretende di spiegare i rapporti sociali tramite le differenza culturali. È negli anni ’80, con la grande mistificazione di SOS Racisme, che questo scivolamento è divenuto una dottrina che ha fatto nascere tutte le derive attuali, fino ad assegnare una identità “mussulmana” a tutti gli immigrati arabi ed ai loro discendenti.
Constatato lo scivolamento di una parte della sinistra verso l’ideologia culturalista, è interessante notare che questa è diventata, dopo il 1968, il cuneo di sfondamento di una corrente di estrema destra: la “Nuova Destra”. Il suo rifiuto dell’immigrazione non si fonda più su di un razzismo biologico ma sull’idea di un’assegnazione identitaria fondata su di una visione congelata delle società nelle loro tradizioni antiche, nonché sulla necessità, per conservare la pace sociale, di conservare delle culture omogenee. Secondo le elucubrazioni dei neodestrorsi, per cui i conflitti sono sempre etnico-culturali e mai di classe, i Maghrebini, per esempio, assegnati d’ufficio alla cultura mussulmana, devono di conseguenza restare nei loro paesi d’origine per vivere le loro tradizioni a casa loro! Detto per inciso, Alain de Benoist, leader ideologico della “Nuova Destra”, difende le lotte terzomondiste ed antimperialiste e nega il carattere razzistico della sua “difesa dell’identità europea”. Questa trasformazione del discorso razzista è presente da qualche anno all’interno di un’altra formazione di estrema destra, alla ricerca di un’immagine rispettabile, il Fronte Nazionale, che riprende parte della retorica della “Nuova Destra”: il problema non sono più gli “immigrati”, ma i “mussulmani”.
Accade così che si arrivi, da sponde teoricamente radicalmente opposte, ad adottare un discorso identitario il quale considera che tutti coloro che hanno un legame d’origine o familiare con l’uno o l’altro dei paesi del Maghreb (o di altri paesi “arabi”), sono da considerarsi “mussulmani”, dando loro l’aberrante appellativo di “francesi di origine mussulmana”. Questo anche se non è a causa della religione che praticano o che viene loro attribuita che sono discriminati, ma perché sono lavoratori migranti o provenienti da famiglie che emigrarono: non è l’identità che è in gioco ma l’appartenenza di classe. Questa “origine mussulmana” che fa saltare gli atei di origine maghrebina, nasconde sia uno stigma sociale sia uno stigma culturale. Lo Stato ed i grandi Media non si ingannano quando fanno del “mussulmano”, considerato necessariamente islamista (più o meno moderato o radicale), il nuovo prototipo del membro della Classe Pericolosa. (3)
È su queste basi che l’ideologia identitaria anti-islamofoba giunge ad associarsi, in particolare presso certi marxisti, a quella della “razza sociale”, chimera universitaria di recente importazione, che tenta di applicare qui lo schema razziale e comunitario della società nordamericana. Questa visione “razzialista”,(4) che pretende di creare una nuova categoria di “razza” non serve realmente ad altro che a mascherare o addirittura negare la realtà del rapporto sociale capitalista: lo sfruttamento dei proletari, di tutti i proletari, quale che sia la loro origine, il colore della loro pelle, la loro religione, i loro personali usi e costumi. La logica sarebbe che il razzismo sarebbe stato essenziale per lo sviluppo capitalistico allo scopo di giustificare il colonialismo: in realtà, però, considerare esseri inferiori gli oppressi è sempre stata una strategia di potere che si applica a tutti gli oppressi qualunque sia la loro presunta “razza”. Bloccare nella loro condizione servi, contadini poveri, schiavi, operai, passa notoriamente attraverso il diritto di esprimersi e di avere accesso all’educazione, con il pretesto che essi sarebbero troppo stupidi ed ignoranti per questo, in quanto appartenenti ad una categoria inferiore. Ricordiamo, però, che gli inglesi hanno duramente colonizzato e saccheggiato gli irlandesi ed i russi gli ucraini senza avere bisogno di questa giustificazione. In generale, sfruttamento e colonizzazione, non hanno bisogno di scuse particolari.
Eppure, il razzismo esiste di certo ed il rigetto del “mussulmano” povero ed immigrato è una delle sue manifestazioni. I discorsi del FN, del Blocco Identitario e di Pegida(5) contro l’Islam non sono che l’albero che nasconde la foresta: sono semplicemente dei razzisti che vogliono che gli immigrati sloggino. Ai loro occhi, l’argomento culturale è senza dubbio più accettabile dei vecchi argomenti razzisti basate su delle caratteristiche pretese innate (i neri sono così, gli arabi colì…). Questa strategia permette loro di aggregare in misura maggiore, tanto più che questi movimenti sfruttano per i loro scopi razzisti l’aumento effettivo dell’Islam radicale. Se l’immigrazione è per essi il problema fondamentale, essi si aggrappano ad argomenti onorevoli quali la difesa della laicità e la lotta contro il sessismo: in realtà però, che gli immigrati (poveri, ovviamente) siano o meno mussulmani , sono per loro sempre e comunque degli indesiderabili.
Il razzismo, come la xenofobia, è un arma che i dominanti utilizzano contro i dominati. Come scrive Fredy Perlman, “i colonizzatori/invasori dell’America del Nord erano ricorsi ad un’arma che non era, come la ghigliottina, di recente invenzione, ma che era altrettanto mortale. Questo strumento sarà più tardi denominato razzismo e s’integrerà nella prassi nazionalista (…). Le persone che avevano abbandonato i loro paesi e le loro famiglie, che erano sulla strada di dimenticare la loro lingua e di perdere la loro cultura, che erano spogliati di tutto tranne che della loro socialità, erano manipolati al fine di considerare il colore della loro pelle come sostituto per ciò che avevano perduto (…). Il razzismo è stata una delle armi per mobilitare gli eserciti coloniali (…) e se non ha soppiantato gli altri metodi, li ha piuttosto affiancati”.(6) Il suo scopo è quello di creare categorie che permettono
di prevenire o schiacciare ribellioni e lotte sociali. È ciò che ha fatto in Algeria il governo francese nel 1870, concedendo per decreto (la “legge Crémieux”) la nazionalità francese agli “indigeni israeliti”. L’appartenenza “religiosa” è stata utilizzata per schiacciare le lotte sociali nell’ex Yugoslavia con la creazione a tavolino di una “identità mussulmana” fino ad allora sconosciuta, lanciando gli uni contro gli altri uomini che fino a quel momento avevano vissuto tutti insieme.
Logicamente, le divisioni razziali si fanno operanti soprattutto nei periodi di crisi, quando il reddito cala e l’impiego viene a mancare. È su questo terreno che il FN giunge a conquistare le antiche roccaforti operaie della sinistra. Anche nei periodi di piena occupazione, comunque, il potere ed i suoi mezzi di comunicazione hanno sempre più o meno alimentato la xenofobia, incoraggiando di volta in volta la stigmatizzazione di ciascuna delle differenti ondate di lavoratori immigrati (i “polacchi”, i “mangiaspaghetti”, i “portoghesi”…). La grande differenza è che, nell’unità che si forma sul posto di lavoro, la solidarietà operaia prevaleva sui pregiudizi e si combatteva fianco a fianco. Ma questo era prima…
Quanto al termine “islamofobia”, in realtà il problema non risiede nella nozione in se stessa ma nell’uso che ne fanno coloro che la manipolano. Vi si ritrovano gli stessi usi mistificanti della nozione di antisemitismo allorché questo termine è dato come sinonimo di antisionismo e giunge all’accusa di “antigiudaismo”, tramite l’affermazione che la critica del sionismo deve necessariamente essere una posizione razzista di fronte ai “giudei” e non una critica all’aspetto colonizzatore di uno stato confessionale quale è Israele.
L’Islam politico tende, come dice Claude Guillon, a fare de “l’islamofobia un’arma di guerra contro l’ateismo”(7) e, più in generale, un veicolo di propaganda per la religione mussulmana. Gli anti-islamofobi di estrema sinistra hanno una posizione a dir poco ambigua relativamente all’islam politico. Pretendono così di interdire ogni genere di critica della religione mussulmana considerata come una pratica razzista, con un atteggiamento moralizzatore rivelatore di una mancanza di analisi politica dell’evoluzione dell’islam politico dopo la rivoluzione iraniana del 1979 – quando non ne negano addirittura l’esistenza. Di fronte al jihadismo, i nostri anti-islamofobi non si scompongono affatto: dopo ogni attentato commesso dai jihadisti in Europa (che si aggiunge alla lunga lista delle loro atrocità, specialmente in Africa ed in Medio Oriente), essi si preoccupano sopratutto della recrudescenza dell’“islamofobia” (ed anche, con maggiore ragione, delle politiche repressive, cosa questa che può portare a ritenere come unico responsabile di tutto l’imperialismo occidentale. Così, a loro avviso, gli attentati parigini del 13 novembre 2015 sarebbero esclusivamente una ripercussione delle guerre intraprese dallo Stato Francese in Iraq, Libia, Mali… Gli interessi di quest’ultimo nello scacchiere politico africano e mediorientale sono evidenti, ma insufficienti a spiegare completamente la nascita e la persistenza dello Stato Islamico(8) o di Boko Haram. Questi discorsi permettono in qualche modo agli anti-islamofobici di ignorare le implicazioni effettive dell’Islam radicale negli attentati, in Francia ed altrove nel mondo, e di negare l’autonomia morale dei loro autori, fino a deresponsabilizzare i fratelli Kouachi o Coulibaly perché sono proletari e “figli dell’immigrazione”. Ritroviamo qui l’ideologia vittimistica che non solo assegna individui e gruppi a delle identità (donne, “razzistizzati”, ecc), ma anche a delle categorie prefissate di vittime ed oppressi dei quali è proibito criticare scelte e pratiche, anche le più reazionarie. Questi atteggiamenti ideologici portano ad occultare il carattere controrivoluzionario dell’Islam radicale che, da molti anni, conosce in Europa occidentale (senza di sicuro dimenticare il Maghreb ed il Medio Oriente) un aumento, anche se resta minoritario relativamente alla totalità della popolazione che si dice mussulmana. Da quando era marginale, se non addirittura inesistente, l’Islam radicale, la cui forma maggioritaria è oggi il salafismo, si è molto espanso.
Per queste anime belle anti-islamofobe, occorrerebbe semplicemente considerare la religione mussulmana in maniera estremamente aperta perché sarebbe la “religione degli oppressi”. Sembrano così dimenticare completamente che la funzione fondamentale di ogni religione è il controllo sociale e, ogni volta che se ne presenta l’occasione, l’Islam afferma dappertutto la sua volontà di controllo sulle società che intende governare. Così, il salafismo ha una forza sufficiente per esercitare il controllo su alcune zone urbane: durante i disordini del 2005, i salafiti hanno anche cercato di controllare alcuni sobborghi. Lo sviluppo di questa tendenza si inscrive in un contesto di crisi economica, segnato dallo sviluppo della disoccupazione di massa, di attacco ai salari ma anche di arretramento delle politiche sociali dello Stato. Per superare questi problemi, i salafiti sono stati in grado di mettere in piedi reti di mutuo soccorso, cosa che permette loro di avere influenza sulle popolazioni.
Non perdere di vista il ruolo di controllo sociale delle religioni ci pare indispensabile. “Una religione è in effetti una serie di credenze trascendenti che comportano delle regole di condotta di vita molto precise, basate su una tradizione morale, alle quali l’individuo deve sottomettersi. Si tratta di un rapporto sociale, una forma di costrizione di ciascun individuo singolarmente e delle masse prese collettivamente. La religione ricopre inoltre un ruolo di giustificazione ideologica del potere, di garanzia della tradizione e dell’ordine stabilito, più in generale di una qual certa “pacificazione” sociale. Questo tramite una interpretazione organicistica della società, un’esaltazione delle gerarchie, il rifiuto dell’autonomia individuale. Spesso la religione è anche un mezzo per dirigere la conflittualità sociale verso obiettivi fittizi o di indebolirla facendo immaginare paradisi futuri. Il paradiso, questa triste menzogna che garantisce qui ed ora la pace sociale ai potenti. Donando una speranza trascendente, la religione soffoca la maggior parte delle spinte rivoluzionarie operati quaggiù ed adesso. Il bel passo di Bakunin – Se Dio esistesse, occorrerebbe distruggerlo – tocca il problema fondamentale della religione: l’idea di Dio è il fondamento concettuale di quella di autorità e la sua controparte – la fede – quella dell’accettazione della servitù.(9)
Se la fede e le domande trascendenti sono questioni personali e ci si può trovare fianco a fianco in una lotta con chi si proclama credente senza che questo crei problemi, vogliamo però poter affermare apertamente ed a voce alta che siamo atei. Affermare il nostro ateismo e criticare ogni sorta di religione è indissociabile dalla nostra posizione politica ed intendiamo praticare liberamente sia la blasfemia sia, almeno, la denuncia delle pratiche religiose e/o delle consuetudini coercitive, mutilanti e/o umilianti, così come dello statuto inferiore assegnato alle donne da tutte le religioni monoteiste (delle altre discuteremo in un’altra occasione).
Infine precisiamo che per noi esistono solo due classi, la borghesia capitalistica e la classe lavoratrice. Anche se, all’interno degli sfruttati, alcuni lo sono più di altri a causa del loro sesso e/o della loro origine, questi non costituiscono una classe a sé, ma sono solo dei segmenti degli sfruttati creati dal potere e dagli sfruttatori. Il pensiero borghese, qualunque sia il suo presunto schieramento politico, trova in questo un mezzo per dividere il proletariato, di stimolare la concorrenza tra i lavoratori e di depotenziare così le lotte sociali. Poiché ogni divisione della classe lavoratrice non fa che indebolire la sua capacità di lotta e segmentarla per meglio dividerla, ciò permette alla classe capitalistica, particolarmente in periodi di crisi, di utilizzare la concorrenza di tutti contro tutti. Non è con l’antirazzismo che si combatte il razzismo, ma con la lotta di classe. Se si è giunti al punto da affermare che “pensare con il concetto di razza è un imperativo imprescindibile” e che “ogni rifiuto di adottare questo vocabolario e di ciò che ne consegue sarà considerato come il diniego, se non la completa negazione, e cadrà sotto i colpi del dispositivo accusatorio”,(10) questo farebbe dei razzisti coloro che, come noi, non aderiscono a questa visione, il che ci sembra un’assurdità.
Flora Grim et Alexandra Pinot-Noir
Maggio 2016 (Traduzione Enrico Voccia)
(1) Vedi Cassandre, “Nos «révolutionnaires» sont des gens pieux”, sul blog di Ravage Editons,
https://ravageeditions.noblogs.org/
(2) Vedi Claude Guillon, “Et Dieu créa l’islamophobie”, sul suo blog generalista Lignes de Force, https://lignesdeforce.wordpress.com/
(3) Vedi Louis Chevallier, grande storico borghese comunque interessante, “Classi Lavoratrici, Classi Pericolose”, Perrin.
(4) Termine mutuato dagli autori di “Mantieni che scivola” (“Tiens ça glisse”) sul blog http://racialisateursgohome.noblogs.org che chiamano “razzializzazione qualsiasi analisi contribuire a sviluppare o propagare una teoria della razza”.
(5) Pegida (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes) è un movimento politico tedesco antislamista fondato a Dresda nel 2014 vicino all’estrema destra, in particolare al Partito Nazionaldemocratico di Germania [nota del traduttore].
(6) Fredy Perlman, “L’Appel Constant du nationalisme” in Anthologie de textes courts, Ravage Editions.
(7) Claude Guillon, op. cit.
(8) Per un’analisi approfondita, vedi P. J. Luizard, Le Piège Daech, La Découverte (La Trappola Daesh, La Scoperta).
(9) Cassandre, op. cit.
(10) “Tiens ça glisse”, vedi nota 4.